domenica 27 dicembre 2009

L’INTERPRETE: COME IL CERVELLO DECODIFICA IL MONDO. UNA RECENSIONE

Un paio di settimane fa, partecipando ad un concorso su Facebook, dove 4 editori si sono riuniti in un gruppo battezzato La mucca di Schroedinger, che ha lo scopo di diffondere la scienza mettendo in palio dei testi, ho avuto la fortuna di vincere il volume di M. Gazzaniga intitolato L’interprete (Edizioni Di Renzo).
Visto il mio indirizzo di specialità (psicoterapia cognitiva) mi interessano molto le scoperte scientifiche su come funziona il cervello e sul loro utilizzo nella pratica terapeutica, in fondo buona parte del lavoro con un paziente consiste nel cercare di capire come pensa e di farlo riflettere sui propri pensieri e stati emotivi.
Sono quindi rimasta particolarmente contenta di aver vinto questo libro.
Si è subito rivelato un libro inaspettato, dall’impostazione inedita. Se ci si fermasse al titolo, si penserebbe di avere tra le mani il solito testo di neuroscienze pieno di esperimenti, cifre e spiegazioni da leggere più volte per poterle capire.
Invece il testo comincia come un’autobiografia, perché gli studi che hanno portato l’autore a importanti scoperte sulle differenze tra i due emisferi cerebrali, sono intrecciati con le sue scelte di vita.
Ogni capitolo riassume un ambito di indagine da lui toccato: gli emisferi cerebrali, la morale, la coscienza.
L’autore riporta alcuni degli esiti dei suoi studi sugli Split Brain: i cervelli divisi in seguito alla resezione del corpo calloso. Questa resezione, utile per combattere l’epilessia resistente ai farmaci, si è rivelata utile anche per scoprire le specifiche funzioni dei due emisferi: quello destro riservato all’azione e alle facoltà “basse” e quello sinistro riservato alle facoltà “alte”, quali il pensiero.
Una delle funzioni più importanti dell’emisfero sinistro è quella che viene definita dall’autore d’interprete: cioè spiegare cosa e perché l’emisfero destro si stia comportando in un determinato modo.
L’autore vede il cervello come isolato dal resto del mondo. Essendo il risultato di millenni di evoluzione, egli non ritiene possibile che si modifichi con l’istruzione. Noi non impariamo nulla, semplicemente attiviamo aree cerebrali/mappe neuronali, che già esistono e se non esistono, non esisteranno mai. Ecco spiegato come mai alcune persone non impareranno mai la matematica, perché non posseggono quei neuroni predisposti a capirla. Per cui quando la maestra ci dirà che nostro figlio “Se solo si impegnasse di più, riuscirebbe…”, noi potremmo tranquillamente rispondere che “No, sarebbe inutile, gli mancano quei neuroni, è meglio che si impegni in quel che è bravo”.
Gazzaniga fa un’importante distinzione tra il cervello e la mente.
Se il cervello è “isolato” dentro sé stesso, così non è per la mente, che anzi è quasi completamente relazionale: buona parte dei nostri pensieri sono legati agli altri e al mondo esterno (lavoro, gli altri, il governo, l’effetto serra, i pettegolezzi ecc.).
Come ogni psicologo sa, la mente, o meglio la capacità di pensare, si forma nella relazione con gli altri e prima di tutto con le figure primarie. Senza il cervello non si produrrebbero pensieri e senza relazioni non nascerebbe la capacità di pensare.
Ahimè però nel suo libro si legge che la sofferenza psicologica si genera all’interno del cervello e si cura quindi con farmaci, che agiscono sulla sua biochimica. Quello che la mente produce come interpretazioni di ciò che sta accadendo non è che una produzione successiva, un tentativo di spiegazione, che si genera dopo la “calamità” che avviene all’interno dell’encefalo. Tutte le terapie, come la psicoanalisi, che tentano di curare disturbi come la depressione, sono inutili perché lavorano sull’interpretazione che l’uomo dà del proprio malessere, e non sul malessere, che è esclusivamente di tipo fisico.
E’ oramai indubbio che la schizofrenia abbia una base genetica e che alcuni tipi di depressione o disturbi d’ansia siano generati dall’alterazione della biochimica del cervello (basti pensare a coloro che fanno/hanno fatto uso di sostanze stupefacenti e che devono assumere psicofarmaci per compensare i danni lasciati dalle sostanze al funzionamento del cervello), ma ritenere che tutte le sofferenze psicologiche siano date da qualcosa che non va nei circuiti neuronali, mi pare una posizione estremista, che non condivido.
Non si spiegherebbero altrimenti i Disturbi di Personalità, i cui sintomi principali sono dati dai deficit metacognitivi, cioè dal cattivo funzionamento della mente, come ad esempio i deficit di automonitoraggio, o differenziazione, o di Teoria della mente, dove l’interprete è chiamato in causa, o il fatto che le psicoterapie funzionino, o il fatto che il solo farmaco spesso fa poco se non associato a una psicoterapia ( proprio rispetto a quest’ultimo punto, l’Asl 4 di Torino sta portando avanti una ricerca per valutare se l’efficacia dei farmaci aumenta quando alla loro assunzione è associata una psicoterapia).
In una intervista fatta al Dott. Gazzaniga e apparsa sul numero 42 di Focus Extra, egli afferma di ritenere superata la psicoanalisi, ma molto utile la psicoterapia. Ciò sembra una franca contraddizione, a meno che per psicoterapia non intenda la terapia farmacologia che agisce sulla psiche.
Ecco se questo libro ha una pecca, è quella che l’autore non specifica bene il suo pensiero, lasciando chi legge di fronte a diverse contraddizioni, che probabilmente non esisterebbero se avesse spiegato meglio le sue opinioni.
Certo è che questo testo è una base da cui si può partire per avventurarsi nel tema della neuroscienza e per avere una panoramica, accennata, ma completa, degli ambiti di studio più recenti, come gli studi di Rizzolatti sui Neuroni Specchio.

by Luigina Pugno

sabato 5 dicembre 2009

INFLUENZA A: L’IGNORANZA DELLA STATISTICA GENERA MOSTRI

Vi segnalo questo articolo scritto dal nostro collaboratore Walter Caputo.

Capita molto frequentemente che i mass - media maltrattino la scienza: d’altronde i mezzi di informazione raramente si occupano di scienza e di conseguenza non sono preparati, cioè le redazioni non dispongono di giornalisti specializzati nella divulgazione scientifica. Gli effetti di una comunicazione distorta su grandi masse di popolazione possono essere molto gravi. Ciò in quanto la maggioranza delle persone non possiede neanche un minimo bagaglio di conoscenze scientifiche di base, e allora tende a comportarsi in maniera completamente irrazionale, mettendo così a rischio l’ordinata convivenza di una qualunque società.

Fortunatamente non tutti i mezzi di informazione sono uguali: ce ne sono alcuni che approfondiscono l’informazione, quando tutti gli altri la semplificano, la riducono, la spettacolarizzano e la costringono in un’unica direzione. Ci sono alcune fonti che mantengono prudenza su quanto affermano e sanno “pesare i numeri”: forniscono al lettore una serie di elementi affinché egli possa capire in maniera il più possibile equilibrata.
Fra le fonti serie, vorrei soprattutto citarne due:
- “L’influenza A è un business, le pandemie sono altre”, articolo – intervista al farmacologo Silvio Garattini, scritto da Roberta Rianna e pubblicato su “Epolis Torino” del 28 novembre 2009;
- “La pandemia è arrivata. Cosa dobbiamo aspettarci ?”, articolo di Gianfranco Bangone inserito in uno speciale sulla “nuova influenza”, pubblicato su “Darwin” di novembre / dicembre 2009.

La mia intenzione, in questo articolo, non è quella di stabilire il livello di gravità dell’influenza A, ma di estrarre dati e informazioni dalle fonti sopracitate, al fine di spiegare ai non esperti come sia possibile applicare semplici tecniche statistiche che consentano di valutare le cifre. Vorrei insomma dare ai lettori qualche utile e semplice strumento per “pesare i numeri”.

Posto che – come rileva giustamente Gianfranco Bangone - è comunque difficile distinguere i morti da influenza dagli altri (cioè da tutte le altre cause di morte), i decessi da influenza A “sono poco più di 90 (1), rispetto agli 8.000 all’anno della stagionale”. Queste sono le testuali parole di Silvio Garattini, secondo il quale i conti non tornano. Allora, se consideriamo che questi numeri provengono da “rilevazioni statistiche dove si confronta la mortalità nel periodo epidemico con quella dei mesi in cui l’influenza è assente” (parole testuali di Bangone), basandosi sull’idea che se tutte le cause di morte sono presenti e se ne aggiunge una (l’influenza), allora i morti in più sono dovuti alla causa aggiunta, quali considerazioni possiamo trarre ?

Possiamo innanzitutto calcolare i rapporti di composizione, vale a dire che è possibile confrontare una parte col tutto tramite semplici quozienti. Che cos’è il tutto? È il numero di decessi che si verificano in Italia in un anno: Garattini afferma che “in Italia muoiono ogni giorno 1600 persone”, dunque in un anno muoiono 584.000 italiani (= 1.600 x 365). Che cos’è una parte ? È il numero di decessi dovuti alla normale influenza, quella cosiddetta stagionale, cioè 8.000. Ora, a condizione che esista omogeneità fra i dati, ovvero che essi siano riferiti allo stesso tempo e allo stesso luogo (ad es. stesso anno e medesima zona geografica), possiamo calcolare il rapporto di composizione fra il numero di decessi per influenza stagionale e il numero complessivo di decessi (e poi moltiplicare il risultato per 100, al fine di avere un’informazione più facilmente valutabile): (8.000 / 584.000) x 100 = circa 1,37% (dato arrotondato). Ciò significa che ogni 100 morti, meno di 2 sono causate dall’influenza stagionale. Dunque non si tratta certo di un’epidemia, e men che meno di una pandemia.

Ma andiamo invece a calcolare il rapporto di composizione fra il numero di decessi per influenza A e il numero complessivo di decessi: (90 / 584.000) x 100 = circa 0,015%. Si tratta di un dato così esiguo che non si può neanche affermare che, ogni 100 morti, uno sia dovuto ad influenza A. Di conseguenza si tratta di un’incidenza assolutamente microscopica.

Tuttavia, se ancora non siamo convinti dei risultati sopra esposti, possiamo calcolare un rapporto di coesistenza, vale a dire che – sempre tramite un semplice quoziente – siamo in grado di valutare due fenomeni diversi che però si verificano nello stesso luogo e nello stesso tempo. Consideriamo quindi coesistenti l’influenza A e quella stagionale e ipotizziamo che non esistano – nello stesso periodo di tempo e nella stessa zona geografica – altre tipologie di influenza. Calcoliamo 8.000 / 90 e otteniamo circa 88,89. Ciò significa che, per ogni morto di influenza A, ci sono quasi 89 morti di influenza stagionale. Questo risultato conferma l’irrilevanza dell’influenza A rispetto a quella stagionale.

Alla domanda sui “morti in Germania dopo il vaccino” della giornalista Roberta Rianna, Garattini risponde: “Non c’è’ nessuna prova che i decessi siano collegati alla profilassi. In Italia, per esempio, muoiono ogni giorno 1.600 persone. È probabile che qualcuna abbia appena fatto il vaccino”. Giustamente, Garattini evidenzia la difficoltà di mettere in relazione, con certezza, una determinata causa con un determinato effetto. L’ignoranza completa dei metodi e delle tecniche statistiche, unita al desiderio di vendere copie anche quando notizie non ce ne sono, spinge molti quotidiani ad indicare, come spiegazione dei fenomeni presi in considerazione, cause che sono lontanissime dall’essere accertate e che forse non verranno mai accertate, per mancanza di dati rigorosi. La statistica è la scienza che trasforma i dati in informazioni, ma senza dati non è in grado di dire o predire alcunché.

Così, in merito all’ipotesi che il vaccino possa essere causa di morte, occorrerebbe impostare una funzione matematica del tipo Y = f(X), dove X è il regressore, cioè la causa (nel nostro caso il vaccino) ed Y è l’effetto, cioè la morte. Una volta individuata la relazione matematica, occorre vedere se, fra causa ed effetto esiste una relazione diretta, vale a dire se con l’incremento dei vaccinati aumentino i decessi. Ma ciò non è sufficiente, in quanto non basta qualunque incremento, occorre un incremento significativo, cioè una differenza sostanziale rispetto ai valori medi. In pratica a differenze positive rispetto alla media dei vaccinati devono corrispondere differenze positive rispetto alla media dei morti (la relazione diretta vale anche in caso di differenze negative sia per i vaccinati che per i morti). Ciò implica che Cov(X,Y)>0, vale a dire che la covarianza è positiva, nel senso che X e Y covariano positivamente (variano insieme nella stessa direzione). Se, infine, si è ipotizzata una relazione lineare (= una retta) fra X e Y, occorre rapportare – in un quoziente – Cov(X,Y) e (σX • σY ) cioè il prodotto degli scarti quadratici medi che, per intenderci, possiamo interpretare come il prodotto fra la variabilità dei vaccinati rispetto alla media (dei vaccinati) e la variabilità dei morti rispetto alla media (dei morti). Perché, in ultima analisi, non ci bastano incrementi significativi rispetto alla media, ci occorre anche vedere come siano distribuiti i dati intorno alla media, quindi quale sia il loro grado di variabilità. Esistono, in statistica, diversi misuratori della variabilità, fra i quali i più utilizzati sono soprattutto lo scarto quadratico medio e la varianza.
Il rapporto fra la covarianza e il prodotto degli scarti quadratici medi si chiama coefficiente di correlazione (lineare): solo se tale coefficiente risulta molto vicino ad 1 possiamo ritenere ragionevole la relazione diretta ipotizzata. E ciò vale solo se abbiamo utilizzato i dati dell’intera popolazione di riferimento, altrimenti – in caso di utilizzo di un campione – occorre vedere quanto sia rappresentativo della popolazione da cui è estratto ed applicare poi tecniche di inferenza statistica per poter dire qualcosa (che comunque non corrisponderà mai alla certezza) sulla popolazione a partire dal campione estratto.

Come se non bastasse, anche se ottenessimo un buon modello statistico, per utilizzarlo a fini previsivi, occorrerebbe che tutte le condizioni nel futuro si mantenessero identiche a quelle del periodo in cui abbiamo elaborato il modello. E ciò vale non solo per il modello “vaccinazione – morte”, ma anche per un modello “causa influenza A – morte”. Così, in modo corretto, Bangone scrive: “Cosa ci dobbiamo aspettare dalla nuova influenza A/H1N1v ? Rispondere non è affatto semplice perché i primi focolai con cui si presenta una pandemia non necessariamente sono indicativi di quello che avverrà più tardi quando arriverà l’onda di piena”.
(1) Nel frattempo i morti sono diventati 107.