sabato 19 febbraio 2011

LA SCIENZA DI NOTTE


La scienza viene vista come la fonte della certezza, basata su fatti, su processi replicabili, su confutazioni che ne confermano la validità.

Secondo il premio nobel per la medicina (1965) F. Jacob “La scienza in sé è imprevedibile. La ricerca è un processo di cui non si può mai dire come andrà a finire. La ricerca è razionale, fatta di ragionamenti articolati e tutto funziona come in un ingranaggio ben costruito. I risultati hanno la forza della certezza. E’ quella che è stata definita la «scienza di giorno».

La «scienza di notte» invece procede alla cieca. Per tentativi, sbagli, passi indietro. Le ipotesi sono dei vaghi presentimenti, delle sensazioni confuse. E niente può far capire se questa «scienza di notte» diverrà «scienza di giorno». Quando la «scienza di notte» trova conferma e la ricerca riesce, allora le si dà ordine, logica, la si scrive in modo da convincere i colleghi e i finanziatori”. (tratto dall’intervista di R. De Sanctis, Il Messaggero, 25-06-2001).

Fu grazie alla «scienza di notte» che S. Altman (La rivoluzione dell’RNA, ed DiRenzo) arrivò a dimostrare la caratteristica propria dell'acido ribonucleico ad agire da catalizzatore biologico (un catalizzatore è una sostanza, fonte o dispositivo che interviene in una reazione chimica aumentandone la velocità ma rimanendo inalterato al termine della stessa). Per questa scoperta fu insignito del premio nobel per la chimica nel 1989, in compagnia dello statunitense T. Cech, che arrivò allo stesso risultato pur non avendo collaborato con Altman.

Alcuni dei metodi che lui utilizzava per progredire nella ricerca erano: la perdita di controllo sulle proprie facoltà mentali e l’annichilimento che provava guardando alla televisione il Football e i film di John Wayne. Ma l’arrivo di due figli gli tolse il tempo per “[…] riflettere liberamente davanti alla tv”, creando uno stallo.

Si potrebbe a questo punto dire che la televisione non fa male alla mente, oppure precisare che non lo fa alla mente di un ricercatore.

Fidandoci di due premi nobel possiamo dire che scoperte scientifiche e invenzioni nascono anche in terreni non adatti.

Sempre nel libro di Altman leggiamo di come L. Szilard ebbe l’idea del reattore a fissione nucleare mentre faceva il bagno, o di come S. Weinberg risolvesse equazioni mentre guardava soap opera.

Io personalmente le mie idee migliori le ho avute nel letto, mentre il cervello si sta ancora svegliando, o ancora mi sono svegliata di notte con l’idea in testa. Quando si dice che la notte porta consiglio.

Questi esempi sembrano dar ragione a T. Kuhn, che diversamente da K. Popper, riteneva che il processo scientifico fosse il risultato di un processo rivoluzionario.

Kuhn impone l'uso del termine "paradigma" per indicare l'insieme di idee, teorie, leggi e strumenti che definiscono una tradizione di ricerca in cui le teorie sono accettate. Il criterio con cui un paradigma risulta vincitore sugli altri consiste nella sua forza persuasiva e nel grado di consenso all'interno della comunità scientifica.

Gli esperimenti fondamentali che portarono alla scoperta di Altman “[…] suscitarono urla d’incredulità da parte di tutta la comunità scientifica” e fu per lui doloroso confrontarsi con le “disoneste affermazioni di chi sosteneva che altri prima di lui avessero scoperto l’attività catalitica dell’RNA”. Insomma per un decennio non ricevette un gran consenso.

Per Kuhn è il paradigma usato dalla comunità scientifica in quel momento a tracciare la linea di demarcazione tra scienza e pseudoscienza. La rivoluzione scientifica porterà al cambiamento del paradigma.

E ora immaginate uno scenario totalmente favorevole ad una teoria scientifica. Immaginate una nuova teoria scientifica che metta in guardia da un’emergenza impellente e indichi una via d’uscita. Immaginate che venga sostenuta da importanti scienziati, politici (Roosvelt, Churchill) e la cui ricerca sia finanziata da filantropi di primo piano (fondazione Rockfeller) e università prestigiose (Harvard, Yale, Princeton), che questa teoria venga insegnata a scuola e che i media se ne occupino.

Uno scenario ideale, non trovate?

Oggi sappiamo che quella famosa teoria che ottenne un forte sostegno durato per mezzo secolo era in realtà una pseudoscienza, l’emergenza che sollevava era inesistente e causò la morte di milioni di persone. La teoria in questione è l’eugenetica.

Allora se gli scienziati criticheranno la vostra teoria, se farà dispiacere a Popper o Comte, verificate di aver fatto tutto bene, secondo il paradigma in auge nel vostro periodo storico e poi non abbiatevene troppo a male, potreste essere un futuro premio nobel o l’inventore delle Geox.

martedì 8 febbraio 2011

SE TI DO UN NOME, TI FACCIO ESISTERE: albero genealogico e risvolti psicologici

Mentre leggevo il libro La sindrome degli antenati (Ed. Di Renzo) della Schuetzenberger, ho cominciato a riflettere sull’importanza dell’avere un nome.

Tutti gli oggetti che conosciamo hanno un nome e quando si fa una scoperta, un’invenzione, credo che una delle prime cose che venga in mente, sia trovare un nome.

Mettere insieme delle lettere e attribuire un nome è come se avesse un potere magico, il potere di far esistere le cose, di creare, di renderle reali.

A chi nella pratica clinica non son capitati pazienti che non volevano nominare un sentimento, perché questo lo avrebbe reso reale e ci si sarebbero dovuti confrontare?

A chi non è capitato di provare un senso di fastidio quando non si trovano le parole (o la parola!) per descrivere un sentimento, una sensazione?

Poi mi è tornato alla mente che mentre studiavo per un esame, nel testo di turno c’era scritto che esistono molti più concetti, di quelli a cui siamo riusciti effettivamente ad attribuire un nome.

A pensarci bene è proprio così, ma per fortuna ci sono le altre lingue che ci vengono in aiuto.

Ah! che magnifica sensazione ho provato quando sono venuta a conoscenza del termine dialettale annigghio. Come descrive bene questo termine il senso di oppressione che si prova quando ci si sente circondati da tanti stimoli/cose e non ci si raccapezza.

Che bello poter dire che ci si sente raminghi: senza una meta precisa.

Il vuoto di termini di una lingua può essere compensato dalle altre lingue. Come avviene con i termini inglesi solitude e lonelyness.

Nel testo della Schuetzenberger si parla di come il nome di battesimo sia fondante dell’identità dell’individuo. Il cognome non si può scegliere, ma il nome si.

Può riflettere una tradizione familiare, una scelta religiosa, dovuta alla moda, o il tentativo di aprire i confini e rompere con la tradizione. Si può decidere un nome che piaccia e basta o di un parente deceduto.

Talvolta il nome di una persone è indicativo della sua provenienza, delle sue origini. Per esempio i nomi religiosi sono più diffusi nel sud Italia.

Il solo nome di battesimo ci dà già delle informazioni sulla nostra famiglia o su chi lo sceglie.

Il nome è la prima eredità che riceviamo. La prima parola del nostro romanzo familiare.

Il nome è una delle basi dell’identità, ci ricorda la Schuetzenberger.

Chiedere a una persona come mai si chiama così, diventa un ottimo punto di partenza per la ricostruzione biografica della sua famiglia.

La ricostruzione della propria identità sia in termini genealogici, sia psicologici è un’operazione complicata, ma nel suo libro si trova l’esplicazione di come farla elaborando insieme al paziente un genosociogramma.

Forse gli psicologi avran già sentito parlare e usato il genogramma.

Per i non addetti ai lavori, il genogramma si fa partendo dal nome del paziente e mettendoci intorno i nomi di persone e animali significativi per il paziente, indicando con delle frecce il tipo di relazione che intercorre tra il paziente e gli altri e inserendo le date principali della sua vita. La sola realizzazione grafica può già dare delle indicazioni sul tipo di personalità della persona.

Il genosociogramma va oltre. E’ un vero e proprio albero genealogico (a cui si possono anche aggiungere le persone extrafamiliari importanti per il paziente), dove vengono annotati gli avvenimenti significativi di tutti e le date in cui sono accaduti.

Facendo così l’autrice ha scoperto che i segreti di famiglia e/o i non detti, malattie, incidenti e sciagure varie, non si riscontravano solo nella vita del paziente, ma che erano presenti anche nelle vite dei suoi antenati.

Ciò che i suoi predecessori non avevano risolto nelle loro vite, veniva come lasciato in eredità ai posteri, che si trovavano così ad affrontare i loro traumi irrisolti.

La Schuetzenberger comincia il suo libro descrivendo i presupposti teorici alla base del genosociogramma e delle sue scoperte, e accompagna per mano il lettore attraverso Sindromi da anniversario, Doppie sindromi da anniversario, Venti di proiettili, Incesti genealogici.

Man mano che si procede, si passa da un testo didattico a un romanzo avvincente, che rende veloce la lettura.

Rimane un grande quesito irrisolto. Come avviene questa trasmissione tra le generazioni?

C. G. Jung riteneva che esistesse una eredità psichica. E se fosse così? E se oltre al patrimonio genetico, ci venisse passato anche un patrimonio psichico?

Pensando a questa ipotesi la prima sensazione è che si esca dai “fatti” scientifici, ma effettivamente potrebbe anche non essere campata in aria.

Poi penso al nome che abbiamo dato a nostro figlio Rossano. Due anni prima che nascesse ho sognato che sarei rimasta incinta, che sarebbe stato maschio e che il suo nome sarebbe stato Rossano. Chissà come interpreterebbe la Schuetzenberger il fatto che Rossano si chiama così, a causa di un sogno premonitore?


Dr.ssa Luigina Pugno