mercoledì 28 dicembre 2011

TRA IL MODELLO E LA REALTA'

Il processo di modellizzazione è alla base della scienza moderna. Da un lato vi è un sistema fisico, ad es. il sistema solare e dall'altro troviamo un modello matematico: punti in uno spazio a tre dimensioni ed equazioni che ne descrivono il moto. Tra il modello e la realtà vi è una corrispondenza: il moto matematico dei punti coincide con il moto osservato dei corpi celesti. Questo è un miracolo.

“Ci siamo abituati talmente a questo miracolo da non pensarci più, eppure continua a restare un mistero, quanto meno per chi scrive queste righe”. Tale affermazione è estratta da “Come funziona il caos – Dal moto dei pianeti all'effetto farfalla” di Ivar Ekeland (Bollati Boringhieri 2010). Ed effettivamente Ivar Ekeland ci ha pensato molto: leggendo il suo testo si comprende benissimo quanta fatica faccia un divulgatore per farsi capire dal grande pubblico. Il risultato è davvero ammirevole, assolutamente in linea con le buone indicazioni fornite da Amedeo Balbi ne “L'apologia di un divulgatore”.

Ma torniamo ai modelli. Ne esistono due tipi: stocastici e deterministici. “Un modello è stocastico se, ad un istante dato, richiede che qualcuno lanci i dadi per usare il risultato del lancio. Nell'ambito della fisica moderna si calcolano delle probabilità: la probabilità che un elettrone passi da un'orbita atomica ad un'altra, la probabilità che un nucleo si disintegri (...)” scrive Ekeland. Si tratta di situazioni in cui non sappiamo cosa succederà in futuro; possiamo semplicemente stilare un elenco di eventi e a ciascuno assegnare una determinata probabilità di verificarsi.

Decisamente più utili sono i modelli deterministici, grazie ai quali è possibile predire gli stati futuri e ricostruire quelli antecedenti, poiché “l'evoluzione del modello è determinata interamente dal suo stato attuale” (tutti i virgolettati di riferiscono a citazioni di Ekeland, salvo dove sia diversamente specificato). Se non esistessero altri tipi di modelli il modello apparirebbe piuttosto triste: o gli esseri umani sono foglie in balia di venti ingovernabili (modelli stocastici) oppure tutto ciò che succede ora determinerà in modo ineluttabile e fatalistico il nostro futuro (modelli deterministici).

Fortunatamente esiste la teoria del caos che, innanzitutto, fornisce nuovi modelli per rappresentare fenomeni irregolari o aleatori. Si tratta di modelli deterministici ma caotici: non serve la presenza (ingombrante) di un lanciatore di dadi, ma si lascia posto anche al caos, cosa che implica “associare una dimensione all'imprevedibile”. In pratica, in matematica sono stati elaborati nuovi strumenti: sta poi al fisico o al biologo o anche all'economista scegliere i mezzi migliori per modellizzare la realtà oggetto del loro studio.
D'altronde, a tal proposito, Ekeland scrive: “La teoria del caos è, come la geometria euclidea o la teoria dei numeri, un insieme di risultati matematici dotati di vita propria, indipendentemente dal fatto che si possa applicare o meno a dei fenomeni osservabili”.

Molti pensano che l'incertezza sia necessariamente legata alla complessità. Eppure è possibile generare il caso “anche attraverso meccanismi molto semplici”. Così, anche se vi è un ridotto numero di fattori e ciascuno di essi è fonte di casualità autonoma, il sistema è caotico. Ma come è possibile che un sistema caotico sia anche deterministico? “La risposta sta in quel labile margine che separa lo zero matematico dal quasi niente, l'esattezza assoluta dalla migliore approssimazione possibile”. Purtroppo non siamo in grado di ottenere una precisione senza limiti, né in merito alle condizioni iniziali del sistema, né relativamente ad ogni tappa futura di evoluzione dello stesso. E ciò potrebbe farci sentire completamente impotenti di fronte alla realtà che ci circonda. Tutte le simulazioni numeriche, fornite dai grandi calcolatori, sembrerebbero di fatto inutili.

In realtà, e fortunatamente, esiste lo “shadowing lemma (il lemma dell'orbita ombra)”: esso “ci assicura che, in un certo senso, l'incertezza sulla posizione iniziale e gli errori di arrotondamento si compensano”. Così, sebbene si commettano errori, è possibile calcolare traiettorie “giuste”, grazie – paradossalmente – all'instabilità tipica dei sistemi caotici. Ma dobbiamo sempre tener conto che, fra il modello e la realtà, c'è il calcolo. “Non diremo mai più: questa equazione rappresenta questo fenomeno. Bisognerà aggiungere: il sistema è caotico, il suo tempo caratteristico è di tot, sappiate che al di là di quest'ultimo certi calcoli non rappresentano più nulla (...)”. Ai limiti fisici eravamo già abituati, ora “bisognerà abituarsi al fatto che le teorie abbiano anche dei limiti numerici”.

Walter Caputo

martedì 20 dicembre 2011

C'ERA UNA VOLTA IL QUINTO POSTULATO DI EUCLIDE

Spazio è una parola che normalmente evoca tutto ciò che si trova oltre l’atmosfera del nostro pianeta. Al limite si può pensare a Goldrake oppure ad Isaac Asimov. Figuriamoci poi se leggiamo la parola “iperspazio”: ci verrà in mente Star Trek o qualche diavoleria tecnologica per saltare da un punto all’altro dell’Universo, riducendo in questo modo enormi distanze.

E invece no, perché spazio, iperspazio e frattali è anche geometria, o meglio “il magico mondo della geometria”, come recita il sottotitolo del libro di Giuseppe Arcidiacono, edito da Di Renzo e intitolato appunto “Spazio Iperspazi Frattali”.

Se la matematica è ostica per molti, allora la geometria lo è ancora di più: proviamo a pensare, ad esempio ai primi anni dei licei scientifici, durante i quali gli studenti vengono bombardati di teoremi relativi ai triangoli. Teoremi e dimostrazioni, uniti a vagonate di esercizi, che richiedono innanzitutto un disegno, e già quello non è una passeggiata.

Una tipica conseguenza di questo modo di insegnare geometria è che gli studenti pensano che esista solo la geometria piana o al limite quella dei solidi. Oltretutto non hanno la minima idea della storia della geometria, cioè di come i matematici siano giunti a certi risultati e, soprattutto, perché.

La geometria, ovvero “lo studio delle proprietà comuni a figure uguali” (pag. 51) è tutt’altra cosa. E, a tal proposito, il libro di Arcidiacono offre numerosissimi spunti o livelli di lettura. C’è una parte, quella iniziale, che espone proprio le basi, ovvero la geometria piana di Euclide e si distingue per il rigore e la sintesi. Non si sprecano parole e non si devia da un preciso ordine che rappresenta lo sviluppo dell’argomento. Certo, occorre rilevare che le prime 35 pagine sono forse eccessivamente didascaliche: vengono passate in rassegna numerose figure geometriche senza “sale”, cioè senza quegli elementi (curiosità e aneddoti) che potrebbero rendere la lettura più coinvolgente. Insomma in principio il libro pare più un manuale che un testo divulgativo.

Tuttavia, si rileva fin da subito l’utilizzo dell’approccio bibliografico di tipo storico: l’autore identifica, per ogni capitolo, le fonti prime di produzione della geometria. Inoltre, da pag. 37, il libro è più ricco, aneddotico, interessante e coinvolgente. Ad esempio vi si trova il “mistero di Archimede”, ovvero “come riuscì a trovare l’area della sfera e il suo volume?” (pag. 37).

Poco più avanti si incontrano cenni ad una geometria che, a mio parere, è una delle più pazzesche e divertenti: si tratta della topologia, detta anche “geometria del foglio di gomma” (pag. 48). Si tratta di una geometria che risulterebbe decisamente simpatica agli studenti, poiché essa “non si propone affatto di calcolare lunghezze, angoli, aree o volumi delle figure geometriche, ma studia solo le proprietà qualitative delle figure” (pag. 48). Con estrema chiarezza viene enunciato il Teorema di Jordan: prendete ora un foglio di carta (cioè un piano), disegnate una curva chiusa (ad es. una circonferenza o un quadrato o un fagiolo…), scoprirete che tale curva divide il piano in due parti una interna (alla curva) ed una esterna. Tale figura geometrica viene detta “curva semplice”.

L’autore prosegue poi con la geometria analitica, trattandola di nuovo in maniera troppo didascalica. Però il capitolo successivo, intitolato “le geometrie non euclidee” pare dar vita ad una parte molto più brillante, oserei dire quasi scoppiettante. Infatti già l’inizio assomiglia ad un giallo: il quinto postulato di Euclide è un postulato e come tale non ha bisogno di essere dimostrato perché “intuitivamente vero”, oppure è in realtà un teorema ed Euclide stesso non è riuscito a dimostrarlo, cercando di non dare troppo pubblicità alla faccenda? Secondo voi, possiamo ritenere intuitivamente vera la seguente affermazione: “Per un punto, fuori da una retta si può condurre una sola parallela alla retta” (pag. 67)?

Se non accettate il quinto postulato, allora: “per un punto non si può condurre alcuna parallela alla retta” oppure “per un punto si possono condurre due parallele alla retta” (pag. 67). Queste due affermazioni hanno dato vita a due diverse geometrie non euclidee. La loro storia è davvero coinvolgente: essa inizia con un dubbio e termina con l’apertura di nuovi orizzonti geometrico - matematici, che non sono solo astratti come si potrebbe pensare, poiché essi hanno applicazioni pratiche in fisica.

Non voglio rovinarvi il piacere della lettura, per cui non aggiungo altro, se non che il libro di Arcidiacono può essere un’ottima idea per un regalo (peraltro costa solo 11,50 euro), a condizione che venga donato ad una persona che abbia certe caratteristiche. Il destinatario deve essere un soggetto che ama la scoperta, a cui piace imparare cose nuove, insomma una persona che da uno spunto di un libro passa ad un altro libro secondo percorsi personali che risultano sempre gratificanti. D’altronde quest’opera dell’editore di Renzo non può essere letta (e consumata) molto rapidamente. Occorre leggerne una parte e poi fermarsi a pensare, anzi ad immaginare tutte le strabilianti figure che la geometria ci propone e che escono dal classico piano cartesiano, disegnato quasi distrattamente su una lavagna scolastica.

sabato 26 novembre 2011

PSICOTERAPIA LOW COST








ATTENZIONE trovate tutte le informazioni in merito a questo progetto sul nostro nuovo sito!
Segui il link
http://ecoassociazione.it/servizi/psicoterapia-low-cost/







INFORMAZIONE IMPORTANTE
La data di questo post, ovvero il 26 novembre 2011, fa riferimento al momento in cui il progetto è partito. Comunichiamo a tutti gli interessati che il progetto di psicoterapia low-cost è attivo.

martedì 6 settembre 2011

ENRICO FERMI E I SECCHI DELLA SORA CESARINA

"Enrico Fermi e i secchi della sora Cesarina", di Fabio Cardone e Roberto Mignani (Di Renzo Editore, 2000) è proprio un libro ben scritto, intendo dire nella forma: la prefazione di Eliano Pessa è molto chiara ed esaustiva; la descrizione dell'ottobre romano di fine millennio è così bella che fa venir voglia di andarci.
Inoltre il primo capitolo introduce, in perfetto stile letterario, la domanda a cui il libro-indagine cerca di dare risposta: "perchè mai fare l'esperimento nella vasca dei pesci rossi?". Perchè "i ragazzi di Via Panisperna", ovvero D'Agostino, Segré, Amaldi, Rasetti ed Enrico Fermi si comportarono in modo così illogico? D'altronde "Spostare in giardino i rivelatori, i campioni di metallo e, in particolare, le sorgenti radioattive così delicate, fragili e costose, per immergere il tutto nell'acqua della vasca dei pesci rossi e fare l'esperimento, non era certo impresa facile".
Il racconto assomiglia ad un giallo e la narrazione è alternata a brevi monografie che rappresentano un momento di riflessione per comprendere meglio la "trama" che si sta dipanando.

Gli esperimenti dei ragazzi di Via Panisperna sembrano dimostrare che lo scienziato non è esattamente quello che si vede al cinema, ma è semplicemente una persona tenace che ripete tante volte gli esperimenti finché non trova risultati congrui e spiegabili all'interno di una (eventualmente nuova) teoria. Gli esperimenti sono sempre "un tentativo di aprire una porta sull'ignoto" e possono quindi comportare dei rischi. Ed è proprio questo il motivo per cui la gente identifica il fisico come "apprendista stregone" e il biologo come manipolatore genetico. Tuttavia, al fine di conoscere la natura, lo scienziato deve necessariamente interrogarla, vale a dire fare esperimenti.
E oltretutto "deve formulare le domande in maniera corretta, se vuole avere risposte sensate - o avere risposte tout court".

Il libro di Cardone e Mignani è un testo di livello base, quindi particolarmente adatto a coloro che si avvicinano per la prima volta alla divulgazione della scienza. A chi ne ha già letta tanta consiglio di rivolgersi verso testi che spieghino in maniera più approfondita i meccanismi della fisica. Si tratta quindi di distinguere un libro di storia della scienza, come quello qui recensito, da un libro di scienza: quest'ultimo è più difficile ma è in grado di fornire un quadro generale di una disciplina e quindi dare anche potenti strumenti al lettore. Tuttavia occorre evidenziare che "Enrico Fermi e i secchi della Sora Cesarina" si distingue molto da analoghi testi divulgativi proprio per la particolare bellezza della forma con cui è stato costruito.
E' avvincente il modo in cui il fisico indagatore, in un certo senso protagonista dell'opera, interroga indirettamente tutti i ragazzi di Via Panisperna e la moglie di Fermi. Poi ragiona su ciò di cui è venuto a conoscenza e cerca la soluzione alla domanda iniziale. Ma - in buona sostanza - brancola nel buio finchè non trova la pista giusta: quando egli rivolge la fatidica domanda al custode del Museo della "Sapienza" di Roma, dove sono conservati alcuni strumenti dell'epoca d'oro della fisica romana, riceve la seguente risposta: "Ah, ma la vasca non c'entra nulla, fu tutta colpa dei secchi della sora Cesarina". Cosa c'entra la donna delle pulizie del Regio Istituto Fisico di Roma con un momento che è ormai entrato a pieno titolo nella storia della Fisica? Non posso dirvelo, perchè non intendo rovinarvi il piacere e il divertimento della lettura.

Walter Caputo - 6 settembre 2011

domenica 3 luglio 2011

LA TEORIA DEI GIOCHI SPIEGATA DAL PROF. ROBERT J. AUMANN

I giochi dell’economia e l’economia dei giochi” di Robert J. Aumann (Premio Nobel per l’Economia), pubblicato nel 2009 dall’editore Di Renzo è davvero un buon libro, in quanto fornisce una chiara idea della Teoria dei Giochi, pur senza addentrarsi in aspetti troppo tecnici. L’autore spiega, in modo comprensibile ed esaustivo, quando è nata la Teoria, dove, ad opera di chi, perché, in quali settori venne in origine applicata e in quali campi viene usata oggi.

Innanzitutto la Teoria dei Giochi non è un gioco, ma è matematica applicata. Il nome tradisce il contenuto: siamo abituati a considerare il gioco legato al piacere e spesso identifichiamo il gioco come l’opposto della realtà. Al contrario di quanto si potrebbe pensare, la Teoria dei giochi non è divertente (almeno nell’accezione comune del termine), e viene applicata a numerose situazioni, che vengono definite “giochi”. “Possiamo definire gioco una qualunque situazione che coinvolga due o più parti, chiamate giocatori, in cui il benessere di un giocatore dipende non solo dal suo comportamento, ma anche da quello degli altri” (“Introduzione alla teoria dei giochi” di Ferdinando Colombo, Carocci editore 2003, pag. 11).

“Il metodo di analisi della Teoria dei Giochi richiede di esprimere ogni problema in un linguaggio formalizzato e di applicare ad esso alcuni algoritmi, che consentono di individuare le possibili soluzioni del problema di scelta razionale.” Essa “è quindi sostanzialmente una tecnica di calcolo”. (Colombo, op. cit., pag. 12).

Per introdurre la Teoria, Aumann spiega come, nel periodo in cui la guerra fredda raggiunse il culmine, i teorici dei giochi interpretarono la mossa americana di costruire numerosi rifugi antiatomici. “Perché si costruisce un rifugio antiatomico? Perché si teme un attacco nucleare. E perché si teme un attacco nucleare? Una buona ragione potrebbe essere che ci si sta preparando ad attaccare l’altra parte, quindi il primo pensiero è difendersi dalla conseguente rappresaglia” scrive Aumann (Aumann, op. cit., pag. 11). Ecco che la mossa americana di costruire rifugi antiatomici non poteva che apparire (agli occhi dei sovietici) estremamente aggressiva e quindi pericolosa. Da qui proviene l’utilità della Teoria: se i politici avessero ragionato come i teorici dei giochi avrebbero corso meno rischi di scatenare un conflitto atomico.
D’altronde, a differenza di molti testi istituzionali di Microeconomia, Aumann tende soprattutto a spiegare come può essere impiegata la Teoria e quali vantaggi può offrire. Così, invece dei soliti esempi da libro scolastico, in cui il caso sembra costruito ad hoc per ottenere un certo risultato e di conseguenza appare artificiosamente astratto, egli punta ad esempi concreti, reali e vissuti, come i negoziati per il disarmo che gli offrirono un ottimo spunto per i suoi studi relativi ai giochi ripetuti.

La storia della Teoria dei Giochi inizia tra il 1910 e il 1920, quando vennero studiati soprattutto i giochi a due giocatori e a somma zero, nel senso che se un giocatore vince 100, l’altro perde esattamente 100 (e quindi la somma fra le vincite, 100 + (-100), è pari a zero). La sequenza delle mosse dei giocatori viene rappresentata in forma normale, cioè tramite una matrice di dati, oppure in forma estesa, vale a dire mediante un diagramma ad albero. Il guadagno di ogni giocatore viene definito pay-off e il piano completo per gestire la partita viene detto strategia. Quando venne elaborato il concetto di soluzione di un gioco, si scoprì che la soluzione è unica soltanto nei giochi a due a somma zero. In tutti gli altri, non esiste una risposta univoca.

Poi grazie a studiosi come Von Neumann, Morgestern, Nash, Aumann, Zermelo, Shapley ed altri la Teoria dei Giochi si sviluppò, fino ad elaborare applicazioni utili non solo in economia e in altre scienze sociali, ma anche in biologia evolutiva. Nel 2005 Aumann ricevette il Premio Nobel per l’Economia soprattutto per aver scritto “il primo trattato rigoroso sui giochi ripetuti con un qualche valore di generalità” (Aumann, op. cit., pag. 41).

Quanto sono diffuse oggi le applicazioni della Teoria dei Giochi? Basta leggere qualche libro che, dal titolo, pare non abbia nulla a che vedere con l’argomento, per poi scoprire che l’autore utilizza nel proprio lavoro alcuni strumenti riconducibili alla Teoria.

Ad esempio Lou Marinoff in “Platone è meglio del Prozac” (edizioni Piemme 2007) tratta della sua attività di “consulente filosofico” e descrive come aiuta i suoi “pazienti” ad affrontare scelte importanti. Nella Teoria dei Giochi, scrive Marinoff, “i giochi vengono usati in senso metaforico per descrivere molte attività umane in cui i partecipanti devono decidere la migliore mossa da compiere in obbedienza ad un complesso di regole, ma per lo più senza essere a conoscenza di tutti i fattori. La teoria delle decisioni, usata da filosofi, fa proprie le idee principali della Teoria dei Giochi, di solito però evitando eccessive complessità matematiche. Soltanto in una ridotta gamma di giochi sussiste in realtà una mossa migliore in ogni fase della partita, e in questo caso è razionale compierla se la si individua. Ma nella maggior parte dei giochi non si ha una mossa migliore: strategie diverse impongono scelte differenti, sicché la domanda non è semplicemente: “Quale mossa è ragionevole fare?” ma piuttosto: “Quale strategia è preferibile adottare?”” (Marinoff, op. cit., pag. 191-192). Così Marinoff, grazie alla Teoria dei Giochi, aiuta i propri clienti a formalizzare meglio il problema di scelta di fronte al quale si sono bloccati, e alla fine sono i clienti stessi, nel momento in cui hanno chiarito i termini del problema, a trovare la soluzione più ragionevole.

Altro esempio di applicazione della Teoria dei Giochi si trova in “Istruzioni per rendersi infelici” (Feltrinelli editore, 1984) di Paul Watzlawick. Egli afferma: “Si giochi dunque a somma zero a livello relazionale e si stia pur certi che a livello oggettivo tutto andrà lentamente ma sicuramente in rovina” (Watzlawick, op. cit., pag. 100). L’idea è che la relazione con il partner non può essere considerato un gioco a somma zero e, se si insiste con questa convinzione cercando di dimostrare di aver ragione e pensando di aver vinto (esattamente ciò che ha perso il partner), si finirà comunque male. Infatti in questo caso si instaura un gioco di potere, in cui uno dei due tende sempre a voler vincere sull’altro, con la conseguenza che, non facendo piacere a nessuno perdere sempre, un giorno il perdente smetterà di “giocare” e terminerà la relazione. I due giocatori (magari marito e moglie) saranno entrambi perdenti di fronte ad un terzo avversario di cui non hanno tenuto conto: la vita.

A proposito della vita, Aumann termina il suo libro con un bilancio. Nel passivo mette le morti di un figlio e della moglie. Nell’attivo colloca invece “l’eccitazione della ricerca”, “la soddisfazione dell’insegnamento”, “la bellezza di una passeggiata nei boschi col tuo nipotino di quattro anni, che riesce a scovare e identificare correttamente la piccola orchidea selvatica di cui gli avevi parlato la settimana prima”, “crescere una bella famiglia” e “vedere la bandiera di Israele, che ondeggia nel vento accanto a quella svedese sul tetto del Grand Hotel di Stoccolma” (Aumann, op. cit., pag. 69-70).

Walter Caputo - 3 luglio 2011

domenica 12 giugno 2011

ZERO, INFINITO, IMMAGINARIO

Chi studia matematica talvolta è scoraggiato semplicemente dalla quantità di matematica attualmente esistente.

I formulari non sono una soluzione perché consistono semplicemente in una sequenza di formule raggruppate in argomenti e impediscono la conoscenza degli aspetti più importanti ed interessanti della matematica.

Si potrebbe allora pensare ai classici libri divulgativi di matematica che, essendo rivolti ad una massa indistinta di persone, tendono a presentare la materia in modo semplice, ma spesso senza formule e senza nulla che possa far “inchiodare” il lettore. D’altronde il fine di questi testi è offrire una porta d’accesso alla matematica o anche un punto di inizio per studiarla. Purtroppo, dopo aver letto un certo numero di tali libri, si resta in un certo senso delusi, in quanto ci si rende conto che si è giunti ad un certo livello di comprensione, ma da lì non ci si muove più nemmeno di un millimetro. Infatti il livello di tali testi è molto simile: tutti portano il lettore fino a dove è possibile, perché, oltre, la matematica può diventare molto complessa.

Certo, restano sempre i manuali di matematica, ma spesso spaventano il lettore per la loro complessità, lunghezza, approfondimento e, talvolta, mancanza di aspetti piacevoli o divertenti relativi alla matematica. Se la matematica un tempo era riservata a pochi, ci sono molte persone ancora oggi che ritengono che tale disciplina possa rappresentare un mestiere solo per coloro che hanno le necessarie attitudini. Gli aspetti relativi all’amore e all’odio per la matematica in realtà sono più articolati, e ne ho già scritto in un mio precedente articolo.

Insomma, nel panorama editoriale italiano, si sente la mancanza di libri che rappresentino una via di mezzo fra il testo divulgativo ed il manuale di matematica. Tali testi possono consentire l’apprendimento graduale della disciplina, partendo dalla divulgazione, passando poi ad un livello intermedio, necessariamente più complesso, per giungere poi alla comprensione del manuale.

Un testo intermedio che ho recentemente letto è “Zero Infinito Immaginario – Lo strano mondo dei numeri” di Giuseppe Arcidiacono, pubblicato (in ristampa) dall’editore Di Renzo. Si tratta di un libro che, appunto, in sole 150 pagine, passa dalle proprietà dell’addizione alla relatività di Einstein. Riesce ad essere in parte divulgativo poiché offre notizie e qualche breve aneddoto sui matematici, ma è anche impegnativo in quanto presenta le formule, le applicazioni, gli esempi utili per capire. Non è però complesso e lungo quanto può esserlo un manuale di matematica.

L’approccio usato nel libro è in un certo senso evolutivo, poiché – quando si introducono nuovi argomenti – si spiega perché sono stati elaborati. Ad esempio, consideriamo che la radice quadrata di un numero negativo non esiste nel campo dei numeri reali. Ciò pone dei limiti ai calcoli, di conseguenza si introducono i numeri complessi che consentono di “superare l’ostacolo” ed ottenere nuovi ed interessanti risultati. Purtroppo, dato che il libro è una ristampa, e l’autore è morto nel 1998, ogni tanto ci si accorge che la trattazione è un po’ datata, ad esempio in merito all’ultimo Teorema di Fermat.

Nello sviluppo storico, dall’Aritmetica di Diofanto ad Einstein, si comprende quali sono le motivazioni che portano allo sviluppo e al progresso della matematica. Si tratta essenzialmente di competizione e divertimento. La competizione scatta quando un matematico vuole dimostrare una congettura o superare i risultati dei suoi predecessori. Il divertimento, anche se ad alcuni potrà sembrare paradossale, credo che sia la spinta fondamentale del progresso matematico: occupandosi di matematica semplicemente ci si diverte e allora si continua a farlo, anche grazie alle gratificazioni, e nonostante le frustrazioni da insuccesso.

Ci sono alcuni elementi del libro che mi hanno particolarmente colpito. Ad es. l’autore offre una spiegazione del motivo per cui non si può dividere un numero per zero, basandosi sulle proprietà della moltiplicazione e della divisione, invece che ricorrere al solito esempio della torta, che non può essere divisa per zero in quanto nessuno ne mangerebbe una fetta. Confesso di aver fatto ricorso a questo esempio con i miei studenti, ma ritengo che la spiegazione di Arcidiacono sia decisamente migliore.

Inoltre l’autore tratta degli iperlogaritmi, delle iperadici e delle iperpotenze, che potrebbero sembrare astratti argomenti di fantascienza, e invece sono molto utili per risolvere equazioni particolarmente difficili, ad esempio quelle che hanno la “x” sia alla base che ad esponente.

È poi decisamente interessante (e affascinante) il capitolo dedicato ai “paradossi dell’infinito”, che però manca di una parte importante: le ricerche del matematico russo Yaroslav Sergeyev sulla misura dell’infinito, di cui ho già trattato in una serie di articoli.

Non è da meno la parte del libro sui numeri immaginari e complessi, perché, ve lo dico molto semplicemente, si capiscono!!! E quando si capisce qualcosa di complicato ci si sente meglio. D’altronde, soprattutto verso la parte finale del libro, quando il livello di complessità aumenta, l’autore riesce a tenere il lettore “sulla strada”, un po’ come quei videogiochi in cui si guidano auto e si può fruire dell’assistenza, nel senso che ci si può muovere utilizzando il volante, accelerando e scalando, ma il computer ci impedisce di finire fuori strada.

Purtroppo, l’ultimissima parte del testo, in cui si spiega l’utilità dei numeri complessi in fisica e si affrontano questioni cosmologiche complesse, è un po’ troppo ristretta e, francamente, lascia l’amaro in bocca: il lettore vorrebbe saperne di più, soprattutto sulla matematica applicata alla cosmologia.

Walter Caputo - 12 giugno 2011

lunedì 25 aprile 2011

DALLA TERRA ALLA LUNA

Alle 22:17 (ora italiana) del 20 luglio 1969 non ero davanti alla TV ad assistere al primo storico allunaggio. Nessun altro impegno avrebbe potuto avere maggiore priorità rispetto alla visione di qualcosa di incredibilmente importante ed irripetibile. Il mio problema è che il 20 luglio 1969 non ero ancora nato. A tutte le “generazioni nate dopo quella memorabile estate” deve aver pensato l'astronauta Umberto Guidoni, quando ha deciso di scrivere “Dalla Terra alla Luna – Il progetto Apollo 40 anni dopo”, libro pubblicato nel mese di marzo 2011 dall'Editore Di Renzo.

Guidoni ha ritenuto necessario raccontare alle generazioni post-allunaggio cosa successe in quel periodo in cui, grazie soprattutto alla guerra fredda e alla competizione USA – URSS, si giunse ad un viaggio che solo la fervida fantascienza di Verne aveva potuto immaginare. Dopo aver terminato la lettura del testo, ritengo che l'obiettivo di Guidoni sia stato perfettamente raggiunto: divulgare con parole semplici ed emozioni ciò che è ormai entrato nei libri di storia. Lui, quindicenne, ebbe la possibilità di seguire in diretta lo sbarco sulla Luna e all'epoca non poteva sapere che, decenni dopo, avrebbe volato due volte intorno alla Terra ed avrebbe soggiornato sulla Stazione Spaziale Internazionale.

D'altronde io sono nato nel 1970 e sono cresciuto con i documentari di Piero Angela. Il mio primo vero interesse per la scienza è stata proprio l'astronomia. Quindi questo libro sembra scritto appositamente per la mia generazione. A maggior ragione si tratta di un testo che dovevo necessariamente leggere, in quanto i miei studenti sono nati negli anni '90 e sospettano che sulla Luna non ci siamo mai andati. Purtroppo loro sono cresciuti con la pseudoscienza di Voyager e Misteri. Ed è quindi mio compito spiegar loro come si svolse realmente il programma Apollo.

Certo, come giustamente evidenzia Guidoni, i teenagers di oggi “mostrano assai meno entusiasmo per lo spazio” rispetto a coloro che hanno vissuto in prima persona lo sbarco sul nostro satellite e purtroppo alcuni miei studenti sembrano non mostrare entusiasmo per nulla. Ciò nonostante gli insegnanti non possono darsi per vinti: per loro Guidoni ha scritto un capitolo apposito, “Il complotto lunare”, proprio allo scopo di demolire scientificamente le principali tesi di coloro che ritengono che lo sbarco sulla Luna sia avvenuto solo all'interno di un set cinematografico.

Inoltre, una volta ogni tanto, a chi ha la fortuna di insegnare capita uno studente il cui sogno nel cassetto è proprio fare l'astronauta. A me è capitato di recente e non so con quali parole descrivere gli occhi di un ragazzo che pensa allo spazio. Occhi che guardano lontano nel futuro, parole come “pensi a cosa deve essere partire per esplorare un nuovo pianeta” e passione per la scienza.

“Dalla Terra alla Luna” è il racconto di come sia stato realizzato il profetico e memorabile discorso di Kennedy, pronunciato il 25 maggio 1961: “....credo che il paese debba impegnarsi, prima che finisca questo decennio, a realizzare l'obiettivo di far atterrare un uomo sulla Luna e farlo tornare sano e salvo sulla Terra...”. E fu così che la spinta propulsiva al programma Apollo venne data proprio dalla supremazia russa relativa alla tecnologia spaziale, alla quale l'America oppose tutte le sue energie organizzative, scientifiche e finanziarie. La vittoria americana non fu immediata: Guidoni spiega non solo i successi ma anche i problemi e i fallimenti che la NASA dovette affrontare per portare i primi uomini sulla Luna.

Dopo il programma Apollo, la spinta verso lo spazio risultò affievolita: l'obiettivo era stato raggiunto, l'URSS era stata battuta e i finanziamenti cominciavano a scarseggiare. La NASA riuscì comunque a portare avanti il programma Skylab, ovvero la prima stazione spaziale americana. E poi venne lo Space Shuttle e la Stazione Spaziale Internazionale. E si affacciarono sulla scena spaziale anche il Giappone, la Cina e l'India.

La parte finale del libro è dedicata soprattutto al futuro, ovvero all'eventuale programma per tornare sulla Luna entro il 2020. Infine, una base permanente sulla Luna, oppure una stazione orbitante potrebbero essere gli “spazioporti” che consentiranno la futura esplorazione umana del nostro Sistema Solare.

Walter Caputo - 25 aprile 2011

domenica 13 marzo 2011

VITA DA MATEMATICO

Matematici si nasce o si diventa? Come mai ad un certo punto un soggetto decide di mettersi a studiare matematica? E, se anche dovesse studiarla, cosa deve succedere affinché tale soggetto cominci a fare matematica, nel senso di creare nuova matematica?

Il nostro matematico non è ancora nato, ma i suoi futuri genitori, nonostante non siano laureati, leggono molto e sono interessati alla scienza. In particolare il futuro papà sa già che regalerà presto a suo figlio il “piccolo chimico”, in quanto ritiene che trasmettere interessi scientifici alla propria prole sia una buona cosa.

Il matematico nasce e comincia ad andare a scuola, e non è certo un genio. Più avanti però i risultati brillanti in chimica e matematica gli consentono di essere inserito in una classe universitaria di 20 studenti. Ciò significa poter studiare in maniera molto proficua ed avere rapporti diretti con i docenti. Tali rapporti consentono agli insegnanti di trasmettere, oltre alle nozioni della propria disciplina, anche entusiasmo e stimoli. E il caso vuole che il nostro matematico (che non sa ancora che la matematica diventerà la sua professione) abbia un insegnante di matematica, particolarmente brillante e coinvolgente.

A questo punto, posto che il nostro protagonista voglia fare il matematico, quale branca della matematica dovrebbe scegliere? O magari non ha ancora deciso di fare il matematico e, sempre per caso (oppure no?), partecipa, insieme ad altri due studenti, ad un corso avanzato di topologia algebrica. Il docente è in grado di trasmettere il fascino della topologia, ed ecco che il nostro matematico diventa un topologo. È certo che tutti o molti sappiano apprezzare il fascino di una donna o di un dipinto o di una scultura, ma la topologia…. bè, per comprenderne la bellezza, occorre essere proprio tipi particolari.

Il nostro topologo non ha ancora trovato quello che potrebbe essere definito “un buon posto di lavoro”, ma intanto si sposa e mette al mondo due figli. Fortunatamente (per lui e per la sua carriera, credo meno per lei), la moglie decide di smettere di lavorare per dedicarsi esclusivamente alla famiglia.

Per cominciare a fare matematica occorre un buon problema da risolvere, un docente esperto che abbia già riflettuto sul problema e che possa quindi dare indicazioni utili, infine serve senz’altro una creatività tale da poter generare gli strumenti per ottenere la soluzione e un proprio percorso di approccio al problema. Ciò è proprio quanto è accaduto, durante la tesi di dottorato, al nostro protagonista, che – ormai topologo di nome e di fatto – ha cominciato a cercare lavoro.

Naturalmente in principio di carriera si accetta di “fare la gavetta”: si tratta di svolgere incarichi non prestigiosi e studiare ancora molto, come se si fosse ancora studenti. Ma, se si ha pazienza, arriva anche la ricompensa, soprattutto quando si riesce a dimostrare un importante risultato matematico. In questo modo si viene gratificati e si ha la spinta ad andare avanti; inoltre si può puntare ai centri di eccellenza della matematica. E così il nostro giovane topologo finisce niente meno che all’Institute for Advanced Study di Princeton, dove, tra gli altri, ha lavorato Einstein.

Ad un matematico può poi capitare di doversi spostare altrove, e magari “altrove” è la meravigliosa spiaggia di Copacabana. Eppure, benché la spiaggia sia un ottimo posto di lavoro, sempre di lavoro si tratta e si può anche essere onesti ed ammettere che i propri migliori risultati matematici sono stati ottenuti lavorando sulla spiaggia. Peccato che, in seguito a questa pubblica ammissione, si riceva la notizia che i propri fondi di ricerca sono stati tagliati e quasi non si viene considerati persone serie. Perché è capitato questo “incidente di percorso” al nostro topologo? Semplicemente perché, putroppo, molti non hanno la più pallida idea di cosa sia la matematica (figuriamoci poi, una specifica branca come la topologia….).

Per fare ricerca matematica serve davvero poco: basta un blocco di carta, una penna a sfera, una biblioteca ben fornita e colleghi stimolanti. E così il tempo passa, e ci si ritrova anziani. Ma la consapevolezza di aver spaziato in molte aree della matematica (dalla topologia differenziale alla teoria economica, dai sistemi dinamici alla teoria della computazione, dall’analisi non lineare alla meccanica) fa sentire bene. E così il nostro topologo ha dimostrato tenacia e audacia e, ora che è anziano, si sente di consigliare queste qualità ai giovani.

L’avventura della sua vita è molto più di quanto ho scritto in questo breve articolo. La potete leggere per esteso nel libro di Stephen Smale (Medaglia Fields e Premio Wolf), “Matematica sulla spiaggia – Il caos e il ferro di cavallo”, pubblicato nel 2011 da Di Renzo Editore, nella collana “Dialoghi Scienza”.

Walter Caputo - 13 marzo 2011

sabato 19 febbraio 2011

LA SCIENZA DI NOTTE


La scienza viene vista come la fonte della certezza, basata su fatti, su processi replicabili, su confutazioni che ne confermano la validità.

Secondo il premio nobel per la medicina (1965) F. Jacob “La scienza in sé è imprevedibile. La ricerca è un processo di cui non si può mai dire come andrà a finire. La ricerca è razionale, fatta di ragionamenti articolati e tutto funziona come in un ingranaggio ben costruito. I risultati hanno la forza della certezza. E’ quella che è stata definita la «scienza di giorno».

La «scienza di notte» invece procede alla cieca. Per tentativi, sbagli, passi indietro. Le ipotesi sono dei vaghi presentimenti, delle sensazioni confuse. E niente può far capire se questa «scienza di notte» diverrà «scienza di giorno». Quando la «scienza di notte» trova conferma e la ricerca riesce, allora le si dà ordine, logica, la si scrive in modo da convincere i colleghi e i finanziatori”. (tratto dall’intervista di R. De Sanctis, Il Messaggero, 25-06-2001).

Fu grazie alla «scienza di notte» che S. Altman (La rivoluzione dell’RNA, ed DiRenzo) arrivò a dimostrare la caratteristica propria dell'acido ribonucleico ad agire da catalizzatore biologico (un catalizzatore è una sostanza, fonte o dispositivo che interviene in una reazione chimica aumentandone la velocità ma rimanendo inalterato al termine della stessa). Per questa scoperta fu insignito del premio nobel per la chimica nel 1989, in compagnia dello statunitense T. Cech, che arrivò allo stesso risultato pur non avendo collaborato con Altman.

Alcuni dei metodi che lui utilizzava per progredire nella ricerca erano: la perdita di controllo sulle proprie facoltà mentali e l’annichilimento che provava guardando alla televisione il Football e i film di John Wayne. Ma l’arrivo di due figli gli tolse il tempo per “[…] riflettere liberamente davanti alla tv”, creando uno stallo.

Si potrebbe a questo punto dire che la televisione non fa male alla mente, oppure precisare che non lo fa alla mente di un ricercatore.

Fidandoci di due premi nobel possiamo dire che scoperte scientifiche e invenzioni nascono anche in terreni non adatti.

Sempre nel libro di Altman leggiamo di come L. Szilard ebbe l’idea del reattore a fissione nucleare mentre faceva il bagno, o di come S. Weinberg risolvesse equazioni mentre guardava soap opera.

Io personalmente le mie idee migliori le ho avute nel letto, mentre il cervello si sta ancora svegliando, o ancora mi sono svegliata di notte con l’idea in testa. Quando si dice che la notte porta consiglio.

Questi esempi sembrano dar ragione a T. Kuhn, che diversamente da K. Popper, riteneva che il processo scientifico fosse il risultato di un processo rivoluzionario.

Kuhn impone l'uso del termine "paradigma" per indicare l'insieme di idee, teorie, leggi e strumenti che definiscono una tradizione di ricerca in cui le teorie sono accettate. Il criterio con cui un paradigma risulta vincitore sugli altri consiste nella sua forza persuasiva e nel grado di consenso all'interno della comunità scientifica.

Gli esperimenti fondamentali che portarono alla scoperta di Altman “[…] suscitarono urla d’incredulità da parte di tutta la comunità scientifica” e fu per lui doloroso confrontarsi con le “disoneste affermazioni di chi sosteneva che altri prima di lui avessero scoperto l’attività catalitica dell’RNA”. Insomma per un decennio non ricevette un gran consenso.

Per Kuhn è il paradigma usato dalla comunità scientifica in quel momento a tracciare la linea di demarcazione tra scienza e pseudoscienza. La rivoluzione scientifica porterà al cambiamento del paradigma.

E ora immaginate uno scenario totalmente favorevole ad una teoria scientifica. Immaginate una nuova teoria scientifica che metta in guardia da un’emergenza impellente e indichi una via d’uscita. Immaginate che venga sostenuta da importanti scienziati, politici (Roosvelt, Churchill) e la cui ricerca sia finanziata da filantropi di primo piano (fondazione Rockfeller) e università prestigiose (Harvard, Yale, Princeton), che questa teoria venga insegnata a scuola e che i media se ne occupino.

Uno scenario ideale, non trovate?

Oggi sappiamo che quella famosa teoria che ottenne un forte sostegno durato per mezzo secolo era in realtà una pseudoscienza, l’emergenza che sollevava era inesistente e causò la morte di milioni di persone. La teoria in questione è l’eugenetica.

Allora se gli scienziati criticheranno la vostra teoria, se farà dispiacere a Popper o Comte, verificate di aver fatto tutto bene, secondo il paradigma in auge nel vostro periodo storico e poi non abbiatevene troppo a male, potreste essere un futuro premio nobel o l’inventore delle Geox.

martedì 8 febbraio 2011

SE TI DO UN NOME, TI FACCIO ESISTERE: albero genealogico e risvolti psicologici

Mentre leggevo il libro La sindrome degli antenati (Ed. Di Renzo) della Schuetzenberger, ho cominciato a riflettere sull’importanza dell’avere un nome.

Tutti gli oggetti che conosciamo hanno un nome e quando si fa una scoperta, un’invenzione, credo che una delle prime cose che venga in mente, sia trovare un nome.

Mettere insieme delle lettere e attribuire un nome è come se avesse un potere magico, il potere di far esistere le cose, di creare, di renderle reali.

A chi nella pratica clinica non son capitati pazienti che non volevano nominare un sentimento, perché questo lo avrebbe reso reale e ci si sarebbero dovuti confrontare?

A chi non è capitato di provare un senso di fastidio quando non si trovano le parole (o la parola!) per descrivere un sentimento, una sensazione?

Poi mi è tornato alla mente che mentre studiavo per un esame, nel testo di turno c’era scritto che esistono molti più concetti, di quelli a cui siamo riusciti effettivamente ad attribuire un nome.

A pensarci bene è proprio così, ma per fortuna ci sono le altre lingue che ci vengono in aiuto.

Ah! che magnifica sensazione ho provato quando sono venuta a conoscenza del termine dialettale annigghio. Come descrive bene questo termine il senso di oppressione che si prova quando ci si sente circondati da tanti stimoli/cose e non ci si raccapezza.

Che bello poter dire che ci si sente raminghi: senza una meta precisa.

Il vuoto di termini di una lingua può essere compensato dalle altre lingue. Come avviene con i termini inglesi solitude e lonelyness.

Nel testo della Schuetzenberger si parla di come il nome di battesimo sia fondante dell’identità dell’individuo. Il cognome non si può scegliere, ma il nome si.

Può riflettere una tradizione familiare, una scelta religiosa, dovuta alla moda, o il tentativo di aprire i confini e rompere con la tradizione. Si può decidere un nome che piaccia e basta o di un parente deceduto.

Talvolta il nome di una persone è indicativo della sua provenienza, delle sue origini. Per esempio i nomi religiosi sono più diffusi nel sud Italia.

Il solo nome di battesimo ci dà già delle informazioni sulla nostra famiglia o su chi lo sceglie.

Il nome è la prima eredità che riceviamo. La prima parola del nostro romanzo familiare.

Il nome è una delle basi dell’identità, ci ricorda la Schuetzenberger.

Chiedere a una persona come mai si chiama così, diventa un ottimo punto di partenza per la ricostruzione biografica della sua famiglia.

La ricostruzione della propria identità sia in termini genealogici, sia psicologici è un’operazione complicata, ma nel suo libro si trova l’esplicazione di come farla elaborando insieme al paziente un genosociogramma.

Forse gli psicologi avran già sentito parlare e usato il genogramma.

Per i non addetti ai lavori, il genogramma si fa partendo dal nome del paziente e mettendoci intorno i nomi di persone e animali significativi per il paziente, indicando con delle frecce il tipo di relazione che intercorre tra il paziente e gli altri e inserendo le date principali della sua vita. La sola realizzazione grafica può già dare delle indicazioni sul tipo di personalità della persona.

Il genosociogramma va oltre. E’ un vero e proprio albero genealogico (a cui si possono anche aggiungere le persone extrafamiliari importanti per il paziente), dove vengono annotati gli avvenimenti significativi di tutti e le date in cui sono accaduti.

Facendo così l’autrice ha scoperto che i segreti di famiglia e/o i non detti, malattie, incidenti e sciagure varie, non si riscontravano solo nella vita del paziente, ma che erano presenti anche nelle vite dei suoi antenati.

Ciò che i suoi predecessori non avevano risolto nelle loro vite, veniva come lasciato in eredità ai posteri, che si trovavano così ad affrontare i loro traumi irrisolti.

La Schuetzenberger comincia il suo libro descrivendo i presupposti teorici alla base del genosociogramma e delle sue scoperte, e accompagna per mano il lettore attraverso Sindromi da anniversario, Doppie sindromi da anniversario, Venti di proiettili, Incesti genealogici.

Man mano che si procede, si passa da un testo didattico a un romanzo avvincente, che rende veloce la lettura.

Rimane un grande quesito irrisolto. Come avviene questa trasmissione tra le generazioni?

C. G. Jung riteneva che esistesse una eredità psichica. E se fosse così? E se oltre al patrimonio genetico, ci venisse passato anche un patrimonio psichico?

Pensando a questa ipotesi la prima sensazione è che si esca dai “fatti” scientifici, ma effettivamente potrebbe anche non essere campata in aria.

Poi penso al nome che abbiamo dato a nostro figlio Rossano. Due anni prima che nascesse ho sognato che sarei rimasta incinta, che sarebbe stato maschio e che il suo nome sarebbe stato Rossano. Chissà come interpreterebbe la Schuetzenberger il fatto che Rossano si chiama così, a causa di un sogno premonitore?


Dr.ssa Luigina Pugno